31 marzo 2011

La Vita Agra

Questa storia della provenienza turca non era la prima volta che saltava fuori. In effetti, l'unione dell'apprezzevole passione per le lampade facciali del Maestroni alla mia disdicevole pigrizia nel farmi la barba, ci rendeva una bizzarro duo più simile a mercanti di stoffe di Ankara, piuttosto che ad allegri studenti un po' scemi della Pianura Padana.
<< Devo smetterla con queste cazzo di lampade. >>
<< Ah, Italians? Che strano, non l'avrei mai detto! >>
Parlava solo la bionda. Subito si presenta: Olesja.
Olesja non era un bel nome: aveva un che di rotondo e di infido. Il software era tipicamente russo: bionda come un cherubino, la pelle bianca di latte, i denti perfetti, lo sguardo arrogante, una di quelle che quando fanno le foto davanti al Colosseo tirano fuori il culo e si mettono di tre quarti con la bocca a cuoricino. L'amica castana era più carina: era chiaro che subiva l'influenza ed il carisma da oligarca di questa Olesja: ci guardava con questi grandi occhi spalancati come un pulcino bagnato, sforzandosi di sorridere quando il discorso le pareva richiedere una risata generale. Dietro a quel muso da brava bimba non si nascondeva certo una mente eccelsa, questo era fin troppo palese.
<< Scusate la domanda, ma... siete gay? >>
<< Solo nei giorni festivi. >> Faccio io. Risatina della castana. Ancora non si sapeva il suo nome.
<< Lo sapete, vero, che al Propaganda stasera c'è la serata gay? >>
<< No, cazzo, che non lo sapevamo! >>
Comunico la triste news agli altri amici. Said e Sultan non la prendono certo bene: Allah ama ancora meno gli omosessuali di quanto non li ami il nostro buon Dio. Che fare quindi? In effetti tutti questi uomini variopinti attorno a noi dovevano suggerire qualcosa... ah, perdiana, se solo avessimo un po' di quel che si dice: intuito femminile
Mentre discutiamo dei futuri passi, Said si allontana dal gruppo e si avvicina ad Olesja, la scruta un po', se la studia, dall'alto in basso, da destra a sinistra, come se fosse un bel manzo d'esposizione al mercato della carne di Teheran, e con il suo inglese zoppicante attacca:
<< Ma... quanto vuoi? >> Serio e franco come un esattore delle tasse. Questi musulmani mica si fanno fermare da nulla, è gente cresciuta nella polvere, gente con le palle quadrate.
Olesja però pare non condividere la mia positiva visione del mondo musulmano, ed infuriata come un toro castigliano per il terribile misunderstanding, buttando fumi neri dalle narici, prende per mano l'amica castana, ci intima, o meglio, ci comanda, di seguirla, invito circoscritto agli uomini battezzati secondo il rito cristiano lì presenti, ed è così che, senza capirci nulla, ci ritroviamo in mezzo alla strada con il pollice fuori, alla ricerca di un taxi che ci avrebbe portato Dio solo da dove, taxi che ovviamente non tarda a fermarsi: la contrattazione è rapidissima, Olesja tira fuori un portafoglio il cui valore di mercato supera di gran lunga tutti gli stipendi che vedrò da qui alla fine dei miei giorni e con un terribile dito da imperatore romano ci indica di sederci nei sedili posteriori: sprofondiamo come sacchi di patate irlandesi sulle poltroncine impolverate di questa macchina bellissima, un fulgido esempio di nido per acari su quattro ruote motrici.
Staremmo stretti in quattro, figuriamoci se siamo, compresi il guidatore – kazako d'ordinanza dai capelli untuosi come brillantina – in sei. Olesja si mette davanti, e ci mancherebbe altro, chi la contraddice quella? Noi uomini dietro, e la pischella castana sulle mie gambe: questa disgraziata muta ha un terrificante culo a mela della Valtellina, ed io devo far ricorso a tutte le mie migliori arti magiche per non cadere in oscuri pensieri ed in situazioni più o meno disdicevoli: penso a Margherita Hack che mi prepara una frittata con i wurstel in perizoma, penso a Rita Levi Montalcini in giarrettiere nere che mi declama William Butler Yeats, penso a Luciana Littizzetto che mi fa un massaggio cinese. Dopo ogni curva, che il nostro kazako volante prendeva a velocità costantemente troppo sostenute, la bella fanciulla si strofinava sempre un poco per riprendere la posizione originaria, proprio come un serpente od uno spazzolino da denti, e la situazione, nonostante la mia solita enorme buona volontà e purezza di spirito, si andava complicandosi a ritmi esponenziali.
Grazie a Dio, non impiegammo molto tempo a raggiungere la destinazione decisa dalle nostre simpatiche compagne: il cosiddetto Karma Bar. La bionda Olesja sgancia il pattuito con il guidatore, mentre noi, per confermare ancora una volta la nostra nomea di veri gentlemen, non facciamo neppure la scena di tirar fuori il portafoglio, trincerandoci dietro a veri o presunte insormontabili barriere linguistiche. La castana, che nel frattempo mi aveva detto il suo nome – Olga – si leva dalle scatole, con grande sollievo di Fernandello, elargendo il solito mezzo sorriso da allegra bifolca. Mi sgranchisco le gambe e faccio tornare il sangue in posti più consoni.

Dico a Mark: scrivi ai musulmani e digli di raggiungerci qui. Mi dispiaceva un sacco averli lasciati fuori dal Propaganda, senza una spiegazione, e poi dovevo ancora stringere la mano a Said per l'epica scena che ci aveva donato. Nel frattempo, Olesja barbuglia con i buttafuori. Pare ci siano grossi problemi a farci entrare. Dovevano essere le nostre facce da muezzin. Brutta storia quelle barbe. Escono i prezzi: duecento rubli per entrare. Considerando che di solito pare che se ne paghino solo cinquanta, la differenza è notevole, ma a noi, in fondo, che ci importa? Tirando fuori le banconote dovute con la nonchalance dei migliori esteti inglesi, eccoci spalancate le porte di questo misterioso locale.

Karma Bar: ricordo che varcato l'ingresso, c'era una grande stanza bianca e spoglia, fresca d'intonaco, dove ti mettevano il timbro sulla mano, come se fossimo stati un'allegra mandria al pascolo. Ed io pensavo: duecento rubli per un locale che inizia con una specie di aula per conferenze? C'era qualcosa di strano. Poi ci imbucammo da qualche parte a sinistra. Finimmo in una specie di tunnel traballante. Pareva un posto in ristrutturazione. La cosa si faceva sempre più squallida e pericolosa, pertanto bellissima. Le sgarze camminavano sicure dinanzi a noi, io guardavo il Maestroni e non sapevo bene che pensare. In lontananza cominciava ad udirsi della musica negroide: molto bene! Apparirono i primi cuscinoni adibiti a poltrone. Facce poco raccomandabili fumavano narghilè cianciando di cose incomprensibili, le fanciulle erano tutte d'alta classe e gli uomini indossavano camicie slim con il primo bottone aperto a mostrare i loro glabri petti bianchi, cosa inaspettata per i locali da pezzenti che eravam soliti frequentare: l'aria era gonfia di chissà che fumi che ti riducevano all'istante le aspettative di vita di quattro anni buoni.

Karma Bar: finalmente ci siamo. Arredato in gusto orientale, è costituito essenzialmente da due spazi: da una parte ci sta il piano bar, con divanetti dove la Mosca-da-bere butta giù costosi cocktails, dall'altra ci sta il dance-hall, musica prevalentemente hip-hop. C'era una sorta di spazio lievemente sopraelevato che però al momento del nostro ingresso risultava ancora totalmente vuoto. Nella variegata clientela che scuoteva il culo su quelle canzoni terribili risaltava qualche sparuto nero vestito in abiti larghi, e me li ricordo bene perché quelli furono i primi neri che vedevo dopo un sacco di tempo, ed anche perché ballavano proprio come dei neri.


Tutto quel fumo passivo mi aveva fatto venir voglia di rinfrescarmi il gargarozzo. Ordinai il Coca-Ballantine d'ordinanza e mi sedetti con il mio solito tono da Strindberg annoiato, fedelmente seguito dal buon Maestroni. Si vedeva che c'era qualcosa che lo turbava: credo stesse avendo qualche pensiero poco cristiano sulla bionda nazista, che era proprio una donna bellissima, ma di una bellezza che quando arrivi sul traguardo ti accorgi che è ben poco diversa dall'effetto di quattro cubetti di ghiaccio calati nelle mutande. Luca era giù di corda perché la puledra si era sin da subito intrattenuta con un gagliardo cinquantenne dal portamento superbo, con la barba finemente curata ed il baffettino leggiadro, e se la mia precaria vista non mi stava ingannando, si era immediatamente fatta offrire un cocktail, non degnandoci di una parola.
<< Affanculo queste capre maledette, io me ne vado di là a vedere com'è la situazione. >>
Gli feci un cenno con la mano per fargli intendere che preferivo rimanere seduto lì, gesto che intese al volo, d'altronde, non si è stati compagni di banco per niente.
Dopo pochi minuti, ecco che lo sgabello che era del Maestroni viene preso dalla bella Olga, che mi guarda con questi occhi da cerbiatto scemo. Forse mi vuole far intendere che vorrebbe che io le offra qualcosa da bere, ma evidentemente non ha ancora capito che Cardinetti non offre da bere alle donne stupide, e così, per riempire i vuoti dati dall'assenza di un bicchiere nella sua manina smaltata di rosso carminio, attacco a blaterare le prime stronzate che mi vengono in mente. Parlare con queste creature è una delle cose più semplici del mondo, basta cercare di mettere ogni cosa nella luce più divertente possibile, e puoi essere sicuro che al termine della tua frase otterrai in contraccambio una risatina flebile, più o meno sincera.
Ricordo che vomitavo parole come un rubinetto rotto, uno spettacolo pietoso, specie perché non stavo certo comunicando con lei, no, in realtà era come se ci fosse un altro me, che mi guardava da fuori e si compiaceva di quel mare di puttanate che sparavo senza pudore alcuno. Era un teatro delle marionette dove facevo la parte del critico: come avrei parlato di questa situazione, in futuro? Come l'avrei descritta? Avrei detto agli amici rimasti in Italia: vispa come un ovino che bruca l'erba degli Appennini. Mi faceva incazzare quel pensiero, lo sentivo dentro di me, da qualche parte, coperto solo in parte dalle parole, ma che scalciava nella mente, come un mostro da abortire... ma come? Questa Olga era una fanciulla carinissima, uno di quei tipi per cui qualsiasi uomo italiano cederebbe al volo il proprio conto corrente, ma proprio senza alcun pensiero, tuttavia, per me continuava ad avere la consistenza di un ectoplasma: era un pozzo in cui le mie parole tintinnavano come monetine tristi e lentamente si adagiavano sul fondo. La sua placida espressione animalesca non avrebbe subito la benché minima variazione di tono se invece di raccontarle qualche fatto ridicolo della mia adolescenza, le avessi raccontato in lacrime che avevo ancora cinque giorni di vita a causa di un tumore fulminante alle palle, e che il mio ultimo desiderio prima di entrare nel regno dei cieli era che lei si lasciasse fottere sul bancone con una rosa rossa in bocca e delle calze rosa lunghe fino al ginocchio. E io volevo che mi mostrasse un po' di vita, cazzo, che mi raccontasse qualcosa di lei, che mi facesse una faccia da stronza, che mi dicesse che sono un pagliaccio ed un poveretto, che fosse una terrorista islamica, che nascondesse una cintura di dinamite sotto il vestito, che avesse intenzione di far saltare in aria in locale, che avesse un passato da suora di clausura, che facesse riti satanici, che avesse tatuato un verso dell'Apocalisse sull'aureola del capezzolo destro, che divorasse il partner dopo l'amplesso, che studiasse gli usi e i costumi dei Farsi, che fosse una campionessa mondiale del lancio del giavellotto, che passasse le giornate sdraiata sul tappeto a guardare il muro... qualunque cosa, Cristo Santo! Ed invece l'unica cosa che riusciva a dire era: you are mad, a volte nella variante you are crazy, e questo solo perché le spiegavo che avrei preferito un milione di volte visitare la gelida ed inaccessibile Murmansk, piuttosto che la melliflua e puzzolente Venezia. 
Ero stanco e annoiato: le risposi che era proprio una ragazza arguta e che sì, ci aveva preso in pieno, ero proprio mad, ma nel vero senso della parola, prendevo psicofarmaci da qualche settimana perché soffrivo di un male incurabile: disturbo bipolare. Ovviamente non avrei potuto bere quel Coca-Ballantine, ma... la realtà era che ero pure un alcolizzato, non ne potevo fare a meno e non sapevo resistere. Il soffice profumo del whisky mi inebria come il profumo dei tuoi capelli
Olga aveva smesso di ridere: un velo di preoccupazione offuscava i suoi occhi. Si era fatta improvvisamente bella.
Presi ad azzannarla sul collo, vicino alla carotide. Poi le strizzai forte il braccio destro, come si fa con uno straccio sporco. Volevo vedere di che colore avesse il sangue. Prese a gocciolare acqua torbida.

Il Maestroni era ormai di ritorno dalla ronda nell'altra stanza: gli dissi in italiano di sostituirmi con la nostra Heidi: era tempo di cambiare l'acqua al pipistrello.
E di prendere le mie pastiglie.

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