07 febbraio 2011

La celebre gita ad Abramtsevo

Mi arrivarono due ceffoni in faccia. Era Furkat.
<< Svegliati, partiamo fra dieci minuti >>.
Mi ero completamente scordato della splendida escursione ad Abramtsevo.
Abramtsevo dovrebbe essere una sorta di dimora per artisti a circa cinquanta chilometri a Nord di Mosca. Ricordavo che alla Prestigiosa Università Degli Studi di Bergamo tutti i boriosi slavisti e russisti e fancazzisti vari esaltavano le meraviglie di questa Montparnasse russa, e fu per quel motivo che, quando sentì al corso che per il weekend avrebbero organizzato un'escursione in questo posto, accettai al volo, anche con un malcelato vivo interesse – interesse che, ora, non avevo già più. Ma avevo già pagato la quota, in più vi era qualche remota possibilità che nel gruppo ci fosse la Donna dell'Ascensore, ed inoltre ci saremmo recati sul posto col treno, e questi erano tutti tre motivi sufficienti per spingermi ad alzarmi dal letto – tra l'altro, ero già vestito di tutto punto, altro particolare da non sottovalutare.
Scesi al piano di Mark: non era ancora tornato. Si prospettavano quindi due scenari: o era morto annegato nella Moskva, o era morto annegato nell'utero di Tatjana... in entrambi i casi, era una morte dolce e valorosa.
Raggiunsi il gruppo che si sarebbe recato ad Abramtsevo: attendevano in cerchio nel cortile davanti all'ingresso dell'Università. Ovviamente della Donna dell'Ascensore neppure l'ombra. Era il cerchio della Sfiga e della Morte.

Arrivammo alla stazione dei treni. Non ricordo più il nome, ma era da qualche parte nel Nord della città. Diedi i soldi per il biglietto del treno a Furkat, che era l'unico che conoscevo del gruppo, e mi sedetti da qualche parte a guardare i treni e le persone con le valigie. C'è sempre qualcosa di interessante e poetico nei treni che non so spiegare: è meglio che siano vecchi ed usurati, ma anche quelli nuovi ed ipermoderni hanno il loro perché, secondo me. C'era una piccola bimba vestita di stracci e fumo che faceva l'elemosina con un bicchiere di carta. Mi si avvicinò, le chiesi il nome: per un tragico scherzo del destino, si chiamava Svoboda, libertà. Tirai fuori qualche rublo: il grazie che rispose, prima di sgattaiolarsene via, mi conciliò per qualche attimo con l'universo. Ero ancora in dormiveglia. Dovevo aver dormito due ore.

I treni russi sono estremamente diversi da quelli italiani, almeno per quanto possa affermare dalla mia limitatissima esperienza: non c'erano sedili, ma semplici panche di legno usurate dal tempo, che impregnavano l'aria di un gradevolissimo sapore d'annata. Mi misi vicino al finestrino, anche se pure lui era così sporco da rendere un po' difficoltoso la visione del panorama ferroviario. Di fronte a me, Furkat leggeva un manga hentai. Quel ragazzo, pur essendo silenzioso come un sasso, cominciava a starmi simpatico. Forse era proprio per la sua conformazione mineraria. Gli altri partecipanti dell'allegra scampagnata si diffusero a gruppetti rumorosi.

Il treno scivolava lento sulle rotaie ad una velocità tale che se fossi saltato fuori dal finestrino e mi fossi messo a camminargli in parte, dopo dieci minuti l'avrei staccato di cento metri – ed io non sono certo un ghepardo africano. Il panorama attorno a noi sfumava lentamente, come un sogno in bianco e nero: i grattacieli gradualmente lasciavano spazio ai palazzoni, i palazzoni mollemente lasciavano spazio alle izbe, le izbe tristemente lasciavano spazio al nulla, il nulla dolcemente lasciava spazio al nulla ancora più profondo... pareva che ci stessimo avviando verso la fine del mondo. Ero in una condizione di trascendenza mistica che mi avrebbe portato ben presto al sonno, oppure a qualche allucinazione erotica, con quest'ultima favorita dai pronostici in virtù del sobbalzante da-dum-da-dum del vagone...

Improvvisamente il treno si fermò e comparì una folkloristica sequenza di arzille babushke, ognuna con il proprio borsone ed il proprio copione mandato a memoria attraverso il quale pubblicizzare a gran voce la merce che intendevano vendere ai viaggiatori. Era uno spettacolo meraviglioso: si vendevano perlopiù alcolici, ma le più ardite si spingevano anche a prodotti per la pulizia della casa e per l'igiene del corpo... insomma, un vero e proprio mercato nero in movimento. Furkat finalmente alzò gli occhi dal suo manga, prese il portafoglio e sganciò il necessario per l'acquisto di una bottiglietta mignon di Stolichnaja. Subito me la porse e mi propose di fare il primo sorso: bere vodka secca dopo circa due ore che avevo aperto gli occhi su questo mondo crudele era l'ultima cosa che avrei voluto fare. Ovviamente bevetti.
<< Ci vorrebbe un po' di caviale >>.
Il Furkat era proprio un signorino raffinato.

Questa prima e totale immersione nello spirito russo, lontano dai fasti e dai miasmi e dal lusso e dalla miseria della Mosca dei ricchi, venne ben presto rovinata da un'atroce scoperta: nel gruppo c'era pure un'italiana, una ragazza che non avevo mai visto prima. Era una bella ragazza, appariscente, con i lunghi capelli corvini lisci ben curati ed il viso tondo come una mela del Trentino, una di quelle bellezze perfette che in realtà danno presto a noia. Insomma, questa ragazza, che era seduta vicino ad un'altra creatura di cromosoma XX, che però pareva russa, era stata avvicinata da tre signorotti sulla trentina, anche loro con una bottiglia di vodka fra le mani, e tutti insieme stavano intrattenendo un'allegra conversazione nella quale solo l'italiana parlava ed i tre lacché la ricoprivano di lodi sperticate per il suo russo di elevatissimo spessore, cosa che riempiva di orgoglio la gloriosa rappresentante della patria di Dante, che gonfiava il petto, mostrava il seno – piuttosto florido, per onor di cronaca – ed alzava il tono di voce, ed i russi spalancavano le sbardelle e le si stringevano sempre più vicino...
Tirai fuori il lettore mp3. La mia fusione panica con la steppa era ormai terminata.
<< Furkat, dammi un altro sorso, dai >>.

Ricordo con estremo piacere la stazione ferroviaria di Abramtsevo. Era nel bel mezzo del nulla, ed io nel nulla ci sguazzo sempre a meraviglia. L'unica manifestazione del tocco dell'uomo era la striscia nera delle rotaie, che si allungava all'infinito e moriva nel verde della foresta. Devo aver pensato a Gian Battista Alberti – o come si chiama – e devo anche aver fatto anche qualche foto artistica, che artistiche però non erano e che ora grazie a Dio si sono perse da qualche parte. Il delizioso silenzio del luogo era interrotto solamente dagli schiamazzi delle mie colleghe caprine.

Dove andiamo? Non si sa. Non c'è nessuna indicazione. La figura più carismatica dell'allegra brigata, una ragazzino moro secco come un cracker, si mise a capo della ciurma di rivoluzionari: io ci sono già stat0, seguitemi, dritti a babordo! A me pareva più che altro che stesse seguendo le altre persone che erano scese alla fermata, ma non mi permisi di confutare le sue certezze e mi incolonnai per ultimo, silenzioso come un indiano.

Camminammo per una ventina di minuti in mezzo a sentieri improvvisati, circondati da fiumiciattoli placidi come camomilla, rumori di insetti grossi come pugni e pontili di legno non molto stabili... stavo per rifondermi nella natura, anche se mi mancava sempre la mia Ermione. Oltrepassammo uno stagno melmoso e pieno di foglie morte: da qualche parte ci doveva stare pure Ofelia. Feci altre foto. Queste uscirono migliori delle foto della ferrovia.
Lo scroscio delle acque mi stimolò ben presto l'uretra: raggiunto uno spiazzo favorevole, decisi di fermarmi per compiere il celestiale rituale della pisciata all'aperto. La Natura mi stava parlando: mi stava ringraziando per le sostanze nutritizie che le stavo elargendo con cura. Distesi le braccia: due passeri mi si poggiarono sulle dita, una giraffa nana mi solleticava le chiappe, un bue controllava la potenza del getto: con una squadra di metallo, mi comunicò che avevo stabilito un nuovo record mondiale! Che bello. Carezzai gli animali sul muso, diedi loro la buona giornata e tornai sul sentiero.


Avevamo ormai raggiunto il posto. C'era uno spiazzo, dei chioschi, addirittura delle macchine... orrore. Come avevano fatto ad arrivare delle macchine fin lì? Dannato progresso. La gente si rifocillava: io non avevo fame, ma solo sete, solo che non mi ricordavo bene dove cascasse l'accento sulla parola voda, se insomma dovevo pronunciarlo vàda o proprio vòda: risolsi la questione non comprando nessuna voda.
C'era da fare un ulteriore biglietto: mi sfuggiva come mai dovessimo continuare a sborsare soldi se già avevamo già versato una quota, ma anche quello non era poi una questione troppo importante. Quando Furkat mi portò il ticket, l'emozione fu molto diversa da quella del bambino che trova il biglietto per andare alla fabbrica di Willy Wonka: voleva dire che era tutto una sorta di museo a cielo aperto, ed i musei, per loro stessa definizione, non valgono un cazzo, ed uccidono tutta la poesia e l'arte di una determinata cosa. Mi era già venuto tutto tremendamente a noia.

Visitammo qualche casa. Erano casine piccole, grandi, alcune in legno, alcune colorate, alcune con delle stufe di un'altra epoca... in qualcuna di queste, dicevano, ci aveva vissuto anche Gogol'. Io volevo sapere se era quella la casa dove si era lasciato morire di stenti, quel grande uomo, ma nessuno riuscì a rispondermi. Erano carine queste casette, sì: ma non volevano dire nulla. C'erano i cartelli, c'erano signore che spiegavano questo e quello: era una mera esposizione di merce, una trappola per turisti idioti e segaioli letterari. Dovevo andarmene al più presto... ma come? Mi venne un'illuminazione celeste: potevo chiamare Anna Tudanova, la celeberrima grande amica di mia madre. Potevo incontrarla, togliermi dalle palle quel fastidioso regalo che mi ero dovuto portare per lei dall'Italia, e fare due chiacchiere con una fanciulla: insomma, una prospettiva estremamente migliore del passare la giornata a sbadigliare come un mulo fra il fango e quattro casine cadenti.

Anna Tudanova era una ragazza di Mosca che mia madre conobbe in Grecia. Dalle foto che mi aveva mostrato, pareva piuttosto carina e solare, inoltre mi erano stati raccontati un gran numero di aneddoti sulla sua propensione al bere, particolare che volgeva nettamente a suo favore. C'era un grosso problema che mi aveva trattenuto fino ad allora dal chiamarla: mia madre stessa diceva che questa Anna Tudanova era un'instancabile macchina sputa-parole, e questa definizione acquistava un valore particolare proprio perché era uscita dalla bocca di mia madre - non so se mi spiego.
Ma ero pronto: ero pronto a sorbirmi ore ed ore di parole vomitate sullo scibile umano, dai colori che tireranno per la biancheria intima nel 2031 alla rivalutazione della figura di Giovanna D'Arco sulla luce degli ultimi studi di Bachtin. Non era la mia Ragazza Dell'Ascensore, ma era pur sempre meglio di stare ad Abramtsevo a prendere la muffa ed a masturbarsi sui tempi che furono. Presi il cellulare e la chiamai.

<< Ma dove sei ora? >>
<< Sono ad Abramtsevo... hai presente? >>
<< Do-d-dove? >>
<< Abram... Abrazevo! E' da qualche parte fuori Mosca... ci sono le case di legno degli scrittori! >>
<< Mai sentito prima, scusami... allora ci vediamo fra due ore a Pushkinskaja Ploshad, ok? >>

Aveva proprio una bella voce squillante che metteva di buon umore. Però mi pareva un po' strano non avesse mai sentito di Abramtsevo... non era mica uno dei posti più caratteristici da visitare? Arrivai a pensare che l'avevo pronunciato male.
Tornai di corsa in stazione senza dir nulla a nessuno. Avevo una sete che mi sarei bevuto il Gange.



4 commenti:

  1. penso che sia il tuo pezzo migliore, fin'ora.

    però è impossibile che ti sia dimenticato del leon battista... non dopo lo sbraitare della colombera per un triennio intero

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  2. Grazie amico mio :* eh sai che scrivo di getto e di sangue senza revisione io!

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  3. comunque secondo me quello che verrà a breve sarà il post migliore :)

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